Gruppo folk Val Biois
UNA CHIESA GEMELLA PER SAN SIMON

UNA CHIESA ALPINA AI TROPICI….
STORIA DI UNA COMUNITÀ GEMELLA
Tra il 1877 e il 1900 un milione di persone lasciarono l’Italia per il Brasile con il miraggio di “trovar fortuna” nelle Americhe, partivano in preda alla disperazione dalle valli e dalla pianura per approdare dopo un viaggio allucinante in una terra sconosciuta e selvaggia ove c’era solo foresta vergine da disboscare.
Le cause che portarono all’emigrazione furono diverse, l’aumento nel ‘800 della popolazione, la contestuale diminuzione delle risorse, l'agricoltura e l'allevamento erano diventate più povere in virtù dell'emigrazione nei paesi europei di muratori, scalpellini, carpentieri e manovali che lasciava a donne, vecchi e bambini i pesanti lavori dei campi e della fienagione.
Dopo il 1866 inoltre, l'annessione dei territori al Regno d'Italia aveva avuto come contropartita la partecipazione al grande sforzo di risanamento del bilancio italiano attraverso una pesante tassazione, da quella sul macinato a quella sui terreni: racimolare i soldi per le "prediali" (l'imposta fondiaria) o per l'acquisto della farina (insieme alle patate la polenta era la base dell'alimentazione tanto in montagna quanto in pianura) divenne così l'assillo principale di ogni famiglia.
Le condizioni erano veramente difficili, ad un ministro Italiano che invitata i lavoratori a rimanere in patria così rispondeva un emigrante: «Cosa intende per nazione, signor Ministro? Una massa di infelici? Piantiamo grano ma non mangiamo pane bianco. Coltiviamo la vite, ma non beviamo il vino. Alleviamo animali, ma non mangiamo carne. Ciò nonostante voi ci consigliate di non abbandonare la nostra Patria. Ma è una Patria la terra dove non si riesce a vivere del proprio lavoro?», parole su cui si dobbiamo amaramente riflettere purtroppo anche ai giorni nostri.
Con altrettanta enfasi nel 1878 il sindaco di Vallada, in provincia di Belluno, Michelangelo Micheluzzi così scriveva in un rapporto sull’emigrazione al Prefetto di Belluno: «Preferiamo sfidare la sorte là in quelle contrade per oceano immenso lontane, piuttosto che restare monumento compassionevole di miseria nel paese natio, con un fine segnato a grandi caratteri davanti, sicuro, indeclinabile, e sempre più vicino e lugubre: la morte per indigenza oppure la morte del malfattore»;
Gli emigranti partivano dalle loro case ormai vendute o lasciate per sempre ad altri, a piedi attraversavano i paesi, salutando parenti ed amici, con un accorato «Sani (arrivederci), se vedaron en Paradis!» certi che il viaggio sarebbe stato senza ritorno.
Carichi di masserizie e di povere cose procedevano in triste corteo fin dove un carro li trasportava alla più vicina stazione ferroviaria, dove il treno caricava persone e involti, facendoli proseguire per Milano destinazione Genova, qualche volta Marsiglia oppure Parigi e Le Havre.
Il viaggio durava 30 giorni quando tutto andava bene, ma non sempre accadeva, avarie o condizioni atmosferiche avverse o motivi commerciali potevano ritardare sensibilmente l’approdo.
L'arrivo in terra brasiliana, nel porto di Santos, non costituiva ancora la meta definiva, perché bisognava procedere, quasi sempre verso il sud, sino agli stati meta della colonizzazione, ove appena giunti gli emigranti venivano tenuti per altri 40 giorni in quarantena.
Solo al termine di questo periodo venivano instradati verso le colonie, ove sottoscrivendo un contratto avevano in concessione una porzione di foresta, un lotto spesso quasi irraggiungibile per mancanza di strade, al cui pagamento avrebbero provveduto nel tempo. Le nuove terre dovevano essere disboscate e dissodate per poter costruire dei ripari dalle intemperie e dagli animali pericolosi che in quelle terre abbondavano.
Ma la determinazione, l’industriosità e la forza degli Italiani, seppur tra tanti sacrifici, ebbero la meglio e dai ripari e dalle singole abitazioni nacquero i paesi, le città che in onore alla propria storia gli emigranti vollero chiamare “Nova Vicenza, Nova Bassano, Nova Belluno, Nova Trento, Nova Treviso, Nova Padova, Nova Roma, Nova Venezia, Nova Verona, Monte Berico, Polesine, San Marco, Garibaldi, e tante altre ancora, come Nova Udine, Nova Bergamo, Nova Brescia, Nova Milano, Nova Turin, Nova Pompei, Nova Sardenha, Nova Fiume.
Sull’emigrazione in Brasile cadde lentamente l’oblio, complice la prima guerra mondiale e le politiche del governo Brasiliano che negli anni 40 del secolo scorso impedirono di mantenere i contatti e la lingua e mutando a tante città il nome.
Nonostante queste traversie però la lingua parlata nelle famiglie è rimasta una mescolanza di dialetti del nord Italia, in cui è prevalsa la variante veneta chiamata ancor oggi “Talian” che è stata dichiarata patrimonio culturale dal governo Brasiliano nel novembre 2014 ed è una lingua viva diffusa nelle relazioni sociali, nei cori e nelle ballate popolari.

Nel secolo scorso accanto all’agricoltura sorsero poi le industrie ed i commerci, facendo divenire il sud del brasile una delle economie più fiorenti di tutto il continente americano e del mondo, condizione questa che favorì il riallaccio dei rapporti tra i discendenti degli emigranti e l’Italia, ponendo le basi per una solida amicizia tra le genti che vivono nei due continenti separati dall’oceano.
Nacque così l’idea di un gemellaggio tra i comuni della valle del Biois (Falcade, Canale d’Agordo, Vallada, Cencenighe e San Tomaso) ed il comune di Massaranduba nello stato di Santa Catarina in Brasile, gemellaggio divenuto ufficiale nel settembre 2011.

Nell’ambito delle attività di interscambio negli anni 2008-2009 in un colloquio tra Iria Tancon discendente degli emigranti e Franco Gioia Alpino di Verona che vive a Florianopolis si è cominciato a parlare della possibilità di poter realizzare una Chiesetta Alpina, monumento in onore alla storia dell’emigrazione, degli Alpini e di Giovanni Paolo I, Papa Bellunese.
Poco dopo Iria Tancon e Joao Barba Neto, architetto brasiliano, fecero visita in Italia alla millenaria chiesa di San Simon di Vallada e ad essa si decise di ispirarsi nel progettare ed edificare la nuova chiesa nel Morro de Boa Vista nella città di Jaraguà do Sul.

L’idea cominciò a prendere corpo ed un gruppo italiano seguì da vicino lo svolgersi delle attività, nel 2010 furono fatti degli incontri ed il sopralluogo all’area scelta per la costruzione per valutarne le caratteristiche mentre nel 2011 partecipammo alla cerimonia della posa della prima pietra.
Il terreno su cui edificare l’opera, che domina la città di Jaraguà do Sul e da cui si vede l’oceano fu donato dal signor Durval Espezia mentre l’edificazione ed i rapporti con le imprese furono gestiti da Vincente Donini, discendenti entrambi dei primi emigranti.
Nell’ottobre 2012 presso la sede Nazionale ANA il progetto fu presentato all’allora Presidente Perona e nel dicembre con una delegazione di Alpini (Celeste Scardanzan capogruppo di Caviola Cime d’Auta, Giorgio Piccolin, Luigi Martello, Luca Luchetta e Celeste de Prà) all’ingresso dell’area della Chiesa fu costruito un “Triol” o capitello ispirato alle edicole religiose che si incontrano lungo le strade di montagna.
Quest’anno infine siamo tornati sempre con gli Alpini a completare la “Triol” e a realizzare, a poca distanza, una fontana coronata da una pietra dolomitica rappresentante il monte Focobon. Nel gruppo erano presenti anche Franco Murer, artista Italiano, che ha dipinto un San Michele Arcangelo nella Chiesa ed il Crocifisso presente nella “Triol” e Anna Marmolada, altra artista che sulla “Triol” ha rappresentato la storia dell’emigrazione e degli alpini.
Sul frontespizio principale dell’opera è stato poi apposto lo stemma dell’ANA fuso in un piatto in metallo e dono della sede nazionale.


Il giorno della dedicazione della Chiesa e dell’inaugurazione di tutte le opere, in virtù dell’importanza dell’evento, insieme alle autorità locali erano presenti in rappresentanza di tutti gli Alpini anche Sebastiano Favero Presidente dell Associazione Nazionale e Ferruccio Minelli Vicepresidente e delegato dell’associazione per le sezioni all’estero.
La Chiesa è stata poi impreziosita dall’altare in dolomia, dono della comunità e del Sig. Mario Delladio, da paramenti ed oggetti sacri per la celebrazione della santa Messa, dalla via Crucis in quindici formelle opera di Franco Murer e da due crocefissi doni rispettivamente di Celeste e Milena Scardanzan e Lucia De Toffol ed alcune panche per la Chiesa opera di Silvio Marmolada.
Con questa opera i figli dell’emigrazione hanno reso onore ai padri, alla loro fede, alla loro e alla nostra storia e a quell’infinito atto d’amore e di coraggio che è stato il distacco dalla terra natia per la ricerca di un nuovo destino tra le foreste del Brasile.
E’ stato un onore, per tutti noi, essere stati compartecipi in questo “miracolo”, frutto della passione, della volontà e dell’amicizia reciproca tra le comunità, quanto realizzato nel Morro de Boa Vista costituisce probabilmente oggi il più grande monumento alla storia e alla cultura delle Alpi presente in sud America, opera per la quale gli alpini si sono fortemente impegnati e di cui possono, come sempre, essere fieri.
